Il racconto di mio padre della crociera di trasferimento della sua barca a vela, uno sloop di mt 10.40 in legno costruito nel 1927, alla fine degli anni 60' dello scorso secolo. All'epoca non esistevano i sistemi GPS di rilevamento della posizione e si navigava solo con la bussola ed il sestante.
CROCIERA HORNFLEUR – SAN VITO (GAETA)
by Mario Mastrogiacomo
30 Aprile – 27 Agosto 1969
La precociera sino a Brest.
Il simpatico Mercier mi telefonò puntuale a Parigi il Venerdì santo: “Monsieur, come promesso il Clipper è pronto per il varo. Abbiamo lavorato anche di Domenica per accontentarla; non ci faccia lavorare anche il giorno di Pasqua. Venga domani a prenderla in consegna.” La sera stessa ero ad Honfleur con la mia fidata Francalisa. Dormimmo in barca, sotto il capannone. Ma restai sveglio a controllare ogni angolo del mio Clipper sino alle tre: stentai ad addormentarmi per la eccitazione. Cominciava davvero la grande avventura!
Avevo programmato di partire da Brest, per la
traversata del Guascogna, ai primi di Luglio, data consigliata dalla
statistiche della meteo. Dovevo inoltre prendermi dei margini per evitare la
rottura dei tempi delle Tre Madonne nel Mediterraneo: quindi passare il Golfo del
Leone tra il 15 ed il 20 Agosto. Anche per rientrare a Parigi in tempo per la
ripresa del mio lavoro.
Questa pre-crociera doveva essere quindi
programmata in modo da raggiungere Brest entro fine Giugno; anzi qualche giorno
prima, per poi avere il tempo di allestire e revisionare il Clipper prima del
Guascogna. Avevo disponibili nove-dieci week-end; quindi, al massimo, otto
tappe da una quarantina di miglia. Sembrava facile…
Ma quando feci l’elenco di tutte le variabili,
mi trovai alle prese con un vero puzzle. Dovevo coordinare e rendere
compatibili tra loro: i porti agibili, orari di apertura delle chiuse, orari e
percorsi di treni ed autobus per andare e tornare da Parigi, i punti critici
della costa da bordeggiare di giorno, la meteo e le maree.
Riuscii comunque a fare un piano, prevedendo
però molte varianti alternative; una cosa però era certa: avremmo prima o poi
buscato qualche burrasca!
Altra cosa tremenda fu la lista delle cose da
fare in barca prima di partire: giravo senza sosta con in mano una lunga lista
di cui, se ogni tanto riuscivo a spuntare una voce, nel frattempo ne avevo
trovate ed aggiunte almeno due nuove.
Il 23 Aprile, ultimo fine settimana
disponibile,prima della partenza, strappai il foglio: “Francalisa, il prossimo
week-end partiamo: comunque! Qui non si finisce mai!”. Lei mi sorrise: “ Ma si!
Tante cose le potrai fare in navigazione. Non si può prevedere tutto. Vieni in
cuccetta, a nanna accanto a me.”
Il trenta Aprile del 1969 usciamo da Parigi
con la mia Citroen, alle sette di sera, con Bruno e Joanna come equipaggio,
superando un ‘embottillage monstre’; alle ventidue siamo al porto di Honfleur e
dopo qualche intoppo alle 23.30 si
salpa!
Riprendo un brano del mio giornale di bordo. "Ore 2.00- Per la rotta mi riferisco ad un
paio di stelle, poi ad un’altra e poi ancora ad una terza: come si sposta
rapidamente la volta celeste!- Ore 3.00- Bruno esce dalla cuccetta vomitando.
Sta un po’ in coperta con me e si riprende. Mi ringrazia di non aver svegliato
Joanna per il turno da fare con me e
se ne torna in cuccetta. Il Clipper avanza bene. Ora il vento sarà forza 5. Che
altro mondo si ritrova in questa atmosfera fatta di stelle, di spumette e di
vele. Si fanno bilanci su tante cose, su se stessi, sui compagni. Com’è
meravigliosa la mia compagna, sempre al mio fianco, sempre entusiasta, sempre
equilibrata!"
Entriamo a Cherbourg alle 11.30 del mattino:
abbiamo percorso 91 mg in 12 ore!
Il due Maggio siamo già di ritorno per la
tappa successiva. Il tempo è pessimo, è sconsigliabile affrontare le micidiali
correnti di Capo Blanchard. Restiamo in rada a fare prove: voglio vedere come
ce la caviamo a fare la ‘cappa’ per contrastare una burrasca, con le due vele scontrate. Tutto sembra o.k. Il tre
mattino partiamo: tempo buono, ma temporali previsti verso sera. Doppiamo il
capo con cautela, ma la corrente ci fa scarrocciare inesorabilmente sul Banco
Schole: un bassofondale di appena tre metri. Il mare qui ribolle di onde che si
frangono in un sordo frastuono. L’equipaggio, proteso dal pulpito di prua,
guarda e ammira eccitato. Io sono teso e concentrato in attesa di un vortice
che però non si forma; poi siamo di nuovo nel mare piatto. A notte fonda
entriamo a Jersey: siamo in Inghilterra. E lo si vede subito: Alla torretta di
controllo un poliziotto ci ordina di accostare, controlla documenti, provenienza e tutto l’equipaggio. Poi ci
assegna il numero del molo di attracco per le pratiche di immigrazione. Qualche
difficoltà per autorizzarci a lasciare incustodita la barca. Rientriamo in Francia con una bella
nave: che spettacolo i muraglioni fortificati di Grand Ville
La settimana seguente, 11 Maggio, arriviamo in
Aliscafo alle undici. Dobbiamo uscire entro un’ora, pena la chiusura delle
porte. Con noi due c’è oggi il solo Daniele. Ammaino la bandiera di cortesia
inglese, che rivedrò solo a Gibilterra. Metto Daniele di vedetta a prua: stiamo
navigando in una zona di bassofondali con scogli affioranti. Ogni tanto Dani ne
segnala qualcuno…ma quando è già passato! Il vento cala sino a calma piatta: a
motore riesco meglio a seguire le boette di indicazione dei passaggi sicuri.
Alle 18.30 siamo in vista di St. Malò; in avamporto scorgiamo le porte chiuse.
Ormeggiamo quindi al molo foraneo con lunghissime cime: il Clipper sembra
appeso al muraglione. Dormiamo sino alle tre di notte: le chiuse dovrebbero
essersi aperte. La nebbia avvolge tutto in un unico omogeneo grigiore: procedo
lentamente verso un lampeggiante rosso. Accostiamo e sbarco Daniele: “ Vai a
prendere informazioni; non distinguo nemmeno la chiusa.” Dopo cinque minuti
vedo Daniele correrci incontro correndo come un pazzo sul molo: “ Papà,
scostati presto! E’ il turno di uscita delle grandi navi: la turbolenza delle
loro eliche fa scarrocciare ogni cosa!”
Finalmente entriamo; due marinai ci fanno
cenno di accostare ed affiancarci al molo: ci guardano da una altezza di oltre
sette metri. “ Presto le cime: c’è un altro yacht inglese che sta manovrando!
Si affiancherà al vostro scafo: mettete i parabordi.” Alle 4.30 filiamo già
veloci in macchina sotto le stelle, verso Parigi.
Il 24 Maggio siamo tornati a St. Malò, per
raggiungere l’isola di Brehat, in piena Bretagna. Le grandi oscillazioni di
marea trasformano alternativamente il paesaggio: la sconfinata distesa di alto
mare, si trasforma in arcipelago disseminato di scoglietti affioranti. Sulle
carte sono indicati i passaggi sicuri mediante delle tourrelle direzionali, da individuare sul posto e seguire
scrupolosamente. Sono minuscole ed hanno lo stesso colore degli scogli.
Salpiamo alle 10.30 con vento fresco forza 5 da Est. Il Clipper fila veloce a sette nodi: tutto l’equipaggio è impegnato a segnalermi le tourrelle: “C’è n’è una sulla destra.- dice uno – Hai visto quella poco avanti sulla sinistra?”- fa un altro! Bruno segue sulla carta; fa un gran casino, non ci capisce più niente; gli altri manovrano freneticamente alle vele per le continue virate. “ Ci siamo incartati! – urlo. Stiamo navigando alla cieca: presto, ammainiamo il fiocco e rallentiamo questo bolide!” Bruno afferra la scotta del fiocco, ma il vento gliela strappa di mano e la agita sulla barca come una frusta. Joanna riesce ad afferrare il bordo della vela e con un dito infilato nell’occhiello cerca di richiamarsela in coperta. Poi sentiamo un urlo e vediamo la bugna del fiocco volare verso l’alto; Joanna, accasciata sulla coperta, tiene stretta a se la mano: il povero dito si è fratturato!
Gettiamo l’ancora e con la randa in bando,
fermiamo la barca. Joanna è forte e coraggiosa: non un lamento; anzi si scusa
per il trambusto e vorrebbe subito pulire il sangue dal ponte; per fortuna
anche la frattura è lieve.
Francalisa fascia con una stecca il dito di
Joanna; con la bussola di rilevamento determino la posizione della barca sulla
carta e mi traccio il percorso da seguire.
Ammainate le vele e tornata la calma a bordo,
decido di procedere a motore.
Alla 15.30 approdiamo all’isola di Brehat,
dove ci accoglie Maria Antonietta, una cara amica di Catherine. Passammo con
lei e la sua famiglia tutta la giornata seguente. Si innamorarono tutti di
Alessandro, lo coprirono con una cappottina bretone più grande di lui e se lo
spupazzarono per tutta l’isola sotto la pioggia.
Venne a trovarci anche il marchese D’Afflito,
con il quale rievocammo la prima traversata della Manica: quante risate! Bruno
volle organizzargli uno scherzo, prendendo lo spunto dalla sua bramosia di fare
una sontuosa pescata in quei mari. “Ti portiamo su un isolotto in mare aperto,
pieno di branzini e orate. Nel pomeriggio torniamo a prenderti.”- gli propose.
Lo sbarcammo col canotto su un grande scoglio che avevamo selezionato sulla
carta: a marea alta ne sarebbe rimasta emersa una sola minuscola punta, larga
appena per appoggiarci i soli piedi. Quando tornammo a prenderlo era ritto in
piedi, in precario equilibrio sulla punta dello scoglio, rassegnato a doversi
fare un bagno fuori stagione, lo sguardo rapito dal livello dell’acqua che
ancora lentamente risaliva.
Prima di rientrare a Parigi trasferimmo il
Clipper a Paimpol, il cui porto protetto dalle chiuse, offriva maggiori
garanzie per la solitaria sosta di un’altra settimana.
Riuscimmo a rientrare solo il sette giugno;
alle ore 12.00 eravamo pronti a partire. Con lo Yacht che ci affiancava all’ormeggio ci scambiammo
notizie ed informazioni: lo skipper adorava l’Italia e me ne fece le lodi.
Eravamo soli a bordo, Francalisa ed io: come ci intendevamo bene!. Preparai le
rotte con calma; le spiegai le tourrelle da identificare per seguire il canale
e salpammo a vela. Tempo incerto, un bel vento forza 4 al traverso: l’ideale. Alle 16.00 siamo alle
Sette Isole e puntiamo su Perros. Ecco l’isola di Tomè, deserta, piena di
picchi, guglie e anfratti in cui nidificano centinaia di gabbiani. Il vento ora
spira da Est, forza 5 ; rimontiamo ridossati dall’isola sino a scorgere Perros.
C’è bassa marea, tutto è in secca; i muraglioni del porto sembrano una fortezza
che si erge in una vasta piana rocciosa. Lo scandaglio segna mt 1,30: noi
tocchiamo a mt 1,05. Gettiamo l’ancora e ci mettiamo al vento, in attesa. Alle
18.30 , puntualissimi, eccoli arrivare: una
lancia veloce punta su di noi con a bordo Eva, Ernesto ed il figlio
Filippo. “ Non esiste Porto, qui!”- mi annuncia Ernesto. Decidiamo così di
passare la notte in una caletta dell’isola di Tomè. Eva rientra a Perros.
Le manovre di ancoraggio a vela sono complesse
e difficili; ma con quello equipaggio mi sembra un gioco da ragazzi. Mettiamo
due ancore perché il vento entra a raffiche; il mare è calmo, ben ridossato. I
gabbiani, disturbati dalla nostra intrusione, urlano e ci svolazzano intorno
minacciosi. Lo scenario è strepitoso.
Francalisa organizza una deliziosa cenetta;
noi tre maschi i turni di guardia. Ernesto sembra sereno, forse a disagio nel
trovarsi in sottordine e in uno scenario diverso da quello delle regate. Non
parliamo di lavoro: solo di mare, di barche e dei gabbiani. Forse stava
subentrando un leggero disgelo: grazie Clipper!
Alle 7.30 del mattino dopo, salpiamo a vela,
con una brezza tesa, forza 5 da Est: filiamo a sei-sette nodi. Stimolati
dall’andatura perfetta del Clipper, tutti sbandati sulla murata, ci divertiamo
a provare tutte le vele e le andature. Anche il cielo è terso, luminoso; i passaggi
ed i canali vengono riconosciuti senza tentennamenti.
A mezzogiorno entriamo nel fiume che conduce a
Morlaix, sempre a vela. Siamo al molo, già ormeggiati, prima ancora che arrivi Eva.
Ormai è fine Giugno; le grandi burrasche sulla
Manica sono passate. “Amore mio, è tempo di fare l’ultima tappa. Dico a
Francalisa. Questa volta vorrei tanto avere con me tutta la famiglia: farvi
partecipare tutti e salutare i miei piccoli sul mare, prima della grande avventura.” E lei acconsente, felice.
Ci stiviamo tutti sulla Citroen, anche la
piccola tenera Chantal. Alle due di notte del 28 Giugno siamo già in barca: fa
un freddo cane! Francalisa dimenticato le coperte a Parigi; ma ci arrangiamo. “
Mi raccomando, dormite bene perché alle sei domattina si parte!”- dico ai
ragazzi accarezzandoli per la buona notte.
Li ritrovo alle sei del mattino, poveri
cuccioli, mentre morti di sonno e di freddo, salutano con gli occhietti tristi
la loro mamma che sbarca con la piccola Chantal.
Non siamo ancora giunti alle chiuse che
Lallina vomita. Il fiume che percorriamo è avvolto in una bruma misteriosa;
nella strettoia di una ansa sfioriamo il moletto di protezione; sulla piazzola,
dal finestrino della Citroen, sbuca il visetto di Chantal che con la manina ci
saluta: “ Ciao, Tandeddu!” Avanziamo a motore e col solo genoa; pian piano
tutti i ragazzi prendono sonno. Alle 8.00 il sole è già alto; Lallina si fa
crogiolare distesa sul ponte; Alex e Dani cominciano a lottare con la nausea.
Giunti in mare aperto, troviamo poco vento ma una perfida houle
formata dalla burrasca della notte. Alle 11.00
siamo in vista dei bassifondi che racchiudono Aberwrach: “Forza ragazzi,
aiutatemi ad individuare le boe del canale.”- Ordino, un po’ teso. Guido è il
più sollecito. Navighiamo per tre ore con i soli strumenti, sempre sballottati
dalla houle. Alle 17.00 , finalmente
nel ridosso, ci ancoriamo tra decine di yacht inglesi. Francalisa è già in
attesa sul molo. Alessandro va a prenderla col canottino e la porta a bordo
insieme a Chantal, che gli è sempre rimasta accanto: stretta stretta al suo
fratellino.
Al mattino la povera Lallina si sveglia col
viso bruciato e gli occhi gonfi; ha anche la febbre: una brutta insolazione.
Sbarca insieme a Chantal e Francalisa.
“ Ciao mamma, ciao stellina!” – Salutiamo le
nostre donne allineate sul piccolo bastione della chiusa mentre usciamo dal
porto. Sono rimasto con i miei tre moschettieri: come mi sento orgoglioso! La
tappa è lunga ma piena di diversivi. A vela con tante andature, anche sotto
spinnaker; poi a motore; infine col solo genoa per fare un po’ di traina;
peschiamo persino uno splendido grosso branzino. Siamo tutti entusiasti ed
eccitati, sempre in movimento, tutti presi dalle carte nautiche, dalle vele,
dagli strumenti e da tanta gioia di vivere.
Alle 20.00 imbocchiamo il lungo canale di
accesso al porto di Brest: Il gioco delle maree è così vivace, le acque così
piene di vortici, che sembra di entrare in un fiume. Alle 21.30 siamo in porto:
Francalisa ci fa segno dal molo, tutto coperto di barche. Sono ormeggiate in
grappoli di sei –sette, affiancate tra loro, parallele al molo. “Forse meglio
così.- penso tra me.- Non verrà nessun altro ad affiancarsi all’esterno.” Ma
oltre alle cime di collegamento alla barca vicina, ne stendo per sicurezza altre
due fino alle bitte del molo. la escursione di marea qui è fortissima ed il
molo ci sovrasta di oltre cinque metri.
Ci sistemiamo velocemente in macchina: Parigi
è lontana! Ma prima di avviarmi ridiscendo dalla macchina, a controllare
l’ormeggio; ed a salutare il mio
compagno di viaggio:”Ciao Clipper, ci vediamo presto per affrontare insieme il
Guascogna! “. E con la mano gli strattono affettuosamente l’ormeggio di prua.
Il
Golfo di Guascogna.
Il 10
Luglio del 1969 partivo per Brest: con dentro un magone di paura. Due giorni
prima sulla Manica si era scatenato l’inferno: due perturbazioni si erano fuse
in un'unica tempesta senza precedenti. E senza alcun preavviso da parte del
Servizio Meteorologico Nazionale, che viene messo sotto stato di accusa: Le
cronache riferivano di diciotto yacht affondati nel mare in burrasca. In
viaggio riuscii a consolarmi con la statistica: un simile evento si verificava
ogni venti anni: Ma che fifa per averlo evitato per pochi giorni!
L’appuntamento con Massimo Starita ed i suoi
amici medici Carlo e Marcello era
fissato per il giorno undici a Brest; la partenza per il dodici. Arrivato a
Brest la sera, stentai a trovare la barca. Cercavo alle estremità delle varie
pile di barche: nulla. Fu solo inciampando su una cima di ormeggio che quasi
gli cascai sopra: era serrato contro il molo da una decine di barche affiancate
verso l’esterno. Discesi spaventato la lunga scaletta a pioli. Era tutto in
ordine perfetto, le cime di ormeggio ben regolate, il ponte pulitissimo. I francesi
sono straordinari per il grande rispetto delle barche, soprattutto quelle degli
altri!
Il mattino dopo ero al lavoro di buon’ora: di
importante mi era rimasto da montare il telo oceanico di protezione del
pozzetto. Al primo pomeriggio ecco il mio equipaggio: che tuffo al cuore. La
realtà virtuale della crociera preparata e vissuta a tavolino si concretizzava.
Fu festa grande con loro sino a sera.
Il 12 Luglio, ultimati gli interminabili
preparativi, alla 17.30 salpiamo.
Filiamo bene con le vele spiegate a farfalla e
poco prima di mezzanotte doppiamo il grande faro foraneo. Mi metto col massimo
scrupolo in rotta ed eseguo una serie di controlli degli strumenti,
specialmente le compensazioni magnetiche della bussola. La deviazione di un
grado dalla rotta ci farebbe atterrare in Spagna con oltre due miglia di
errore. Stabiliamo i turni: io mi riservo il primo, insieme a Marcello lo
psicoanalista, per mettere a regime tutti i regolaggi della lunga navigazione.
Alle quattro, al cambio delle guardie, Massimo
risale, sostenuto da Carlo, in preda ad un mal di mare micidiale. Carlo
sostituisce Marcello; io sono costretto a rimanere. Teniamo Massimo all’aria,
facendogli fare grandi esercizi di respirazione. Tutto inutile: ogni mezz’ora
ha un nuovo sussulto di vomito. Così sino al mattino. I due amici medici si
consultano e decidono di metterlo in cuccetta: si sta indebolendo troppo, sta
vomitando solo bile. Passo consegne ed istruzioni ai due sopravvissuti, che per
fortuna stanno benino, e scendo esausto in cuccetta. Seguo un po’ la
navigazione e la bussola: lentamente prendo sonno.
Alle 11.30
Marcello mi sveglia per le osservazioni; è accanto a Massimo con un
cucchiaino di marmellata. Faccio appena in tempo a vederglielo vomitare, ed
esco a fare un punto nave con il sestante: la meridiana. Un rapido calcolo per constatare che la rotta
effettivamente seguita è di 195° contro i 210°
che avremmo dovuto seguire. Il vento, che ha sempre soffiato da Est, non
può aver causato questo scarroccio; forse una forte corrente verso terra oppure
l’imperizia del timoniere. Traccio la nuova rotta e raccomando a tutti la
massima concentrazione al timone: procediamo ora per 215°. Intanto il vento è
calato, non si avanza più. Dalle 15.00 ci aiutiamo anche col motore. Intanto,
mancando Massimo, l’orario dei turni è saltato; decidiamo che i due medici si
alterneranno ogni sei ore ed io farò il jolly per i momenti topici, tra cui le
osservazioni al sestante. Verso sera riprende una bella brezza forza 2-3 ,
sempre da Est, al traverso. Fermiamo il motore e filiamo bene tutta la notte a
cinque nodi. Il mare, in apparenza calmo, scorre sotto la chiglia con delle
onde lunghe una cinquantina di metri ed alte tre-quattro: sembra di cavalcare
sopra delle dolci colline. Il barometro, dopo la discesa a 1018 millibar del
pomeriggio, ha ripreso a salire lentamente. La notte tra il 13 ed il 14 resto
con Marcello, affascinato dal cielo stellato e dai suoi racconti di
psicoanalista. Riesco anche a fare un paio di rilevamenti di Altair e dell’Orsa
Maggiore. Intanto Carlo ha sistemato Massimo a terra, sui paioli, per fargli
sentire di meno il rollio dello scafo: è seriamente preoccupato. Ci annuncia
che la sua pressione è scesa molto e il termometro segna 36,1°. Quando sto per
sistemarmi in cuccetta la situazione a bordo ha un sussulto. Alle 6.00 siamo di
nuovo in calma piatta; quando provo ad avviare il motore, il contatto della
chiavetta di accensione è completamente muto. La batteria risulta completamente
scarica. Tentiamo di avviarlo con la manovella senza risultato: nessuno di noi
effettivamente è pratico. Marcello e Carlo a questo punto si smarriscono: “
Fare il Guascogna senza motore è una vera pazzia” Rientriamo subito a Brest.-
sentenziano all’unisono. Anche Massimo lancia da sotto un mugugno di assenso.
Intanto le vele sbattono tristemente; la
barca, invece di avanzare, ruota su se stessa. La mia mentalità di velista
rifiuta istintivamente la opzione del mio equipaggio; ma ci devo arrivare
razionalmente, anche per convincerli. Faccio il punto nave con le osservazioni
della notte e con il log delle miglia fatte: mi ritrovo proprio al centro del
Golfo di Guascogna, in una posizione equidistante da tutto l’arco costiero. “
Ragazzi: calma. Il motore non è essenziale in una barca a vela: è importante
armare quelle giuste e regolarle bene. Il vento soffia da Est, ma il Portolano
indica l’Ovest ed il Nord-Ovest come venti dominanti. Quindi tornare a Brest
significa andare contro vento, verso Ovest affrontare lo zoccolo continentale:
non rimane altro da fare che proseguire verso La Coruna Da questa posizione la rotta resta confermata
in 215°. Coraggio ed al lavoro, perché vedo il mare scurirsi all’orizzonte: sta
per arrivare una sventolata!”
Prendiamo subito una mano di terzaroli alla
randa e passiamo al fiocco medio; il barometro, risalito sino a 1027, ha
ripreso a scendere. Alle nove il fronte
del vento da Est irrompe sulla barca, quasi immobile: a forza di colpi di
pagaia faccio deviare la prua controvento; la prima raffica ci investe a trenta
e più nodi. Il mare si riempie di spumette che cavalcano veloci sulle grandi
onde oceaniche. Siamo troppo invelati, la barca sbanda tremendamente. Passiamo
al fiocco piccolo e prendiamo una seconda banda di terzaroli: filiamo a sette
nodi e mezzo e teniamo bene la rotta. Verso mezzogiorno il vento si è
stabilizzato a 25 nodi, la barca sbanda meno e corre veloce; l’aria è tersa e
luminosa, il sole ci riscalda. Faccio la meridiana:
anche la rotta è perfetta. In questo clima di serenità e ritrovata calma, Carlo
e Marcello emergono da sottocoperta con in braccio il povero Massimo. Lo
sistemano sul bordo sopravento ad ossigenarsi bene; un timido segno di rossore
gli ravviva le pallide gote. “Forse una sorsata di brodo me la farei; magari
con due fettine di pane!”- dice con un accenno di spavalderia.
Ci tengo a stargli un po’ vicino anch’io: lo
ho sempre trascurato! Affido il timone a Marcello e scendo a prendergli il
pane: “Comincia con questo: meglio cibi secchi. Poi passeremo al brodino.”- e
gli porgo amorevolmente le fettine. Ma in quel piccolo trambusto del passamano,
Marcello devia leggermente dalla rotta ed una ondata presa male fa sbandare
violentemente il boma. Io faccio a tempo a scansarmi e ad urlare ‘attenti al
boma!’; il povero Massimo se lo becca in piena fronte! Riportato subito in
cuccetta ci è rimasto, stordito, sino all’alba.
Alla 21.00 il barometro continuava ancora a
scendere veloce : si avvicinava ai fatidici 1012 millibar che segnano l’arrivo
della perturbazione. Poco dopo anche il vento inizia a calare, bruscamente. A
mezzanotte calma piatta, barometro sotto i 1010 millibar e nel cielo i primi
lampi: siamo in piano temporale, forse al centro della perturbazione. Restiamo
immobili, sotto una leggera pioggia sino all’alba.
Le prime luci dell’aurora ci mostrano uno strano cielo pennellato di larghe nuvole, forse cirri, alternate da squarci di un pallido sereno. Il mare è leggermente mosso, il vento assente. Le vele sbattono senza speranza. E’ solo alle 10.00 che si alza una brezza da Sud-Sudovest: riprendiamo finalmente a muoverci, ma il vento soffia di prua. Dobbiamo avanzare di bolina bordeggiando con virate alternate ogni mezz’ora. Occorre segnare ora e posizione di ogni virata e determinare in continuazione la rotta. “ La corrente dove ci avrà portati nella notte?” - mi domando inquieto.
Siamo tutti stanchi e assonnati: oggi 15
Luglio, è il quinto giorno di mare. Ho un fottuto bisogno di dormire e
rilassarmi. Regolo le vele e mi stendo in cuccetta. Nel dormiveglia mi consolo
col fatto che restano ancora una cinquantina di miglia: ‘ come andare da San
Vito a Capri.’. Ma alle 10,30 Massimo ( ‘Toh, chi si vede!’ ) mi scuote: “ E’
meglio tu venga fuori: il vento ha girato e rinforzato. Siamo tutti nel
pozzetto.” La superficie del mare è scura; da ponente intravedo anche le prime
spumette; il vento è già oltre venti nodi. Scrivo sul mio giornale:
Il vento
di SW diventa W, prima forza 4, poi 5 ed infine 6, con raffiche di 7 ( 50
km/ora)Le vele vengono via via ridotte sino a restare, verso le 15.30 con il
solo fiocco piccolo. Il Clipper vibra tutto tanta è la velocità; allargo un po’
la rotta verso Sud per farmi portare e sbandare meno: funziona! Alle 17.00 siamo in vista della costa che si avvicina a vista
d’occhio. Guardo il log: segna 360 mg.
Siamo
davanti ad un paesaggio che stento ad individuare dagli schizzi del Portolano.
Ma non è La Coruna, e non può esserlo. Siamo più a Sud, ma di quante
miglia? Ci sarà qui vicino un porto o un
ridosso per prendere fiato?
Non ho
una carta dettagliata di atterraggio; il Portolano parla di un minuscolo porto
di pescatori: Burela. Avvistiamo un peschereccio che accostiamo: ce lo
conferma, indicandoci anche la direzione del porto.
Lanciamo un urrah! Sotto lo sguardo
incuriosito dei pescatori. Poi non resisto alla voglia di sapere che razza di
burrasca mi ero preso: ne avevo lette di diversi tipi sul Portolano, tutte
micidiali. Chiedo loro quale fosse: sento ancora la loro fragorosa risata.”Esto viento stai bonito: normalissimo
poniente!.
Anche il motore smette di fare le bizze; sembra
prenderci in giro: e si avvia allegro. Alle 19.30 siamo ormeggiati ad un
gigantesco molo, accanto ad un peschereccio di alto mare. Alle nove, dopo un
frugalissima cena, eravamo tutti infilati in un vero letto con lenzuola,
nell’unico alberghetto della cittadina.
Ci siamo svegliati alle dieci del mattino dopo: a me è parso di aver dormito due interi giorni.
Francalisa
a La Coruna.
Alle undici del mattino del 16. Luglio siamo
già a bordo, carchi di provviste e di entusiasmo: dobbiamo percorrere una trentina
di miglia. “ Coraggio, ragazzi: è una
passeggiata; oggi niente turni: godiamoci la prima costa spagnola navigando a
vista.”.Il mare è calmo, spira una leggera brezza: navighiamo a vela e motore.
Ce la pigliamo comoda: Massimo è resuscitato, Carlo pesca, Marcello legge un trattatelo di psicoanalisi ed io faccio un po’ di manutenzione. Alle 17.00 la brezza se ne va ed in un batter d’occhio ci troviamo avvolti da un nebbione da tagliare col coltello.” Oddio, ragazzi!. Non ho fatto nemmeno un rilevamento, non ho la più pallida idea di dove siamo”. Mi prenderei a cazzotti. Ricostruiamo tutti insieme tempi, velocità e rotte seguite; il log segna 25 miglia, ma percorse a zig zag, con virate di ispezione alle baiette, soste con tuffi in mare e per tirar su il pescato. “Se mi tengo ben accostato non possiamo sbagliarci: la prima grande baia a sinistra è la nostra. C’è anche un potente faro per identificarla.”- spiego. Navighiamo per molte ore senza vedere che nebbia, aiutandoci col solo rumore della risacca sulla costa; ad un certo punto una sirena da nebbia ci ha tenuti per mezz’ora col fiato sospeso. Il grande faro è sbucato dalla nebbia all’improvviso, enorme: eravamo ai suoi piedi a non più di cento metri! Poi pian pianino la nebbia si è diradata, sono apparsi altri fari e segnali vari, e con l’aiuto della carta dettagliata di atterraggio ed il riferimento delle rotte dei pescherecci avvistiamo, nella bruma, le luci de La Coruna. La baia antistante il porto è ingombra di barche alla fonda; le banchine sono affollate di pescherecci. Decidiamo di ancorarci alla fonda, a distanza adatta per il canotto.
Erano le 3.30 del mattino del 17 Luglio:
Francalisa mi aspettava dal mattino del giorno precedente! Chissà, povera
stellina mia, come sarà stata in pena! E come lo sarà ora, stanca dall’attesa e
dal freddo, accovacciata su una bitta del molo.
Il mio equipaggio aveva accompagnato queste
mie angoscie con risatine di scherno e sarcastiche battutine: “ Ma figurati!
Francalisa è una donna che sa vivere: si sarà organizzata bene. E’ anche una
bella ragazza: chissà quanti focosi cavalieri spagnoli si saranno messi a sua
disposizione!” Verso le cinque, Carlo e Massimo, inteneriti dalla mia ansia di
accoglierla e coccolarmela a bordo, calano il canotto e si avviano con robuste
vogate verso il molo. “Tornate subito con lei: agli acquisti penseremo dopo. Vi
concedo al massimo un caffè caldo!”- gridai.
Dopo un’ora, orologio alla mano, cominciai a calcolare il tempo del loro ritorno. In un crescendo di ansia, di interrogativi e di scenari sempre più drammatici, si fecero le 9,30., quando finalmente vidi avanzare il mio canottino. Francalisa non c’era; i due amici vogavano lentamente, chiacchierando tranquilli, carichi di provviste. Mi prese un colpo, quasi da sentirmi male. Quando furono a portata di voce cominciai a chiedere notizie, gesticolando e farneticando; i due mi diedero retta solo quando strattonai con forza sotto bordo la cima del canotto. Massimo, con un sorrisetto ironico, laconicamente mi dice: “ Stai calmo, Francalisa è arrivata e sta benissimo. Si è svegliata da poco e sta facendo colazione a casa del ‘maitre’ del Club. Vai ad aspettarla nella hall del circolo.”- “Che cosa?- urlai- Ha passato la notte a casa sua? E per giunta ora se la piglia comoda!” Balzai sul canotto e come un razzo mi precipitai al Club. Il famoso ‘ maitre’ mi accolse con molto riguardo, che mutò in cautela dopo le mie prime inquiete domande. “La sua sposa sta con mia moglie a casa: la abbiamo ospitata per esta noche come facciamo con gli ospiti di riguardo del Club. Sta già venendo qui.” Ma l’ansia di riaverla al più presto con me mi spinse fuori a cercare un taxi : mentre stavo per salirci sopra, la vidi arrivare, correndo, verso di me. Da tanto tempo non ci eravamo più abbracciati con tanta intensità e tenerezza.
A
Sines…come Vasco de Gama.
La sera stessa, a mezzanotte, leviamo le
ancore da La Coruna. L’equipaggio ora è completo: con Francalisa possiamo
organizzare i turni al timone in modo più equilibrato. Ma nessuno vuole
rinunciare a quel cielo ammantato di stelle, alla canzone che canta il mare
scivolando con le sue ondine sotto lo scafo. E’ anche il momento delle
riflessioni profonde sulla vita, sui valori, sui problemi. Non vedo l’ora di
rintanarmi in cuccetta con la mia Francalisa, i tre amici continuano a
dissertare e fanno finta di nulla quando ci intravedono sparire sotto la tuga.
Ma anche stavolta non avevo fatto i conti con
la nebbia. Verso le tre Marcello mi chiama, appena in tempo per rilevare il
faretto di una punta: stiamo uscendo dalla immensa baia del Ferrol, il porto
militare adiacente La Coruna: “ Adottiamo la stessa tecnica dell’altro giorno:
facciamoci guidare dal frastuono della risacca.” – dico ai miei compagni.”
Stabilisco comunque una rotta di sicurezza per evitare di andare troppo sotto i
torrioni rocciosi.
Mi riservo il turno delle sette insieme a
Francalisa: voglio doppiare il Finisterre con lei. La navigazione è
emozionante, piena di mistero: continuo a zigzagare guidato dal rumore e da
qualche squarcio di bianca falaise illuminata dal sole. La mia compagna si
tiene stretta a me fiduciosa. Poi timidamente mi fa: “Ma non stai andando
troppo sotto, amore? Sei sicuro che non
ci siano scogli isolati?”. E’ incredibile quanto questa donna sappia incidere
sui miei comportamenti. Nonostante le mie sicurezze, istintivamente mi allargo
leggermente verso il largo. Dopo pochi minuti vedo ergersi, maestoso,
imponente, il torrione di capo Finisterre, con la base avvolta nella nebbia e
la alta vetta illuminata dal sole. Ci sbarrava la strada! Lo contorniamo
lentamente, accompagnati da un frastuono infernale. E col pensiero mando un
saluto al mio amico navigatore solitario.
La costa Spagnola sino a Bajona, vicino al
confine col Portogallo, è solcata da quattro profondi e stretti golfi chiamati
Rias, simili ai fiordi norvegesi, ma scavati dai fiumi in dolci vallate
verdeggianti. La particolarità del
paesaggio ammirata in alcune illustrazioni, mi aveva molto colpito. Decidemmo
quindi di fare una breve sosta a Muros, nella omonima Ria. Ci passammo la sera,
in una atmosfera dal sapore bucolico.
All’alba del 19 Luglio navigavamo già verso
Bajona: bellissimo il golfo ed uno stupendo antico castello fortificato, sul
mare. Bellissima serata e …botta di vita nel Club. L’ospitalità degli spagnoli
è stupenda, coinvolgente: Ci aiutarono a fare le pratiche di uscita dal
confine, supplicandoci fino all’ultimo di ripensarci, di rinviare almeno di
qualche giorno la nostra partenza. Ma dovevamo recuperare.
Il pomeriggio del 20 entravamo, a vele
spiegate, ad Oporto: ecco il Portogallo!
Le pratiche di ingresso furono lunghe e
laboriose; poca differenza tra una barca ed una nave, molte limitazioni al
diritto di pesca. Ne compresi presto le ragioni. Sui moli si svolgeva un
intenso traffico di pescherecci; una parte della banchina era riservata a
quelli in arrivo, con a bordo il pescato, recintata e guardata a vista dai
pittoreschi doganieri col cappello a due punte. Un alto muraglione la chiudeva
verso terra. Una decina di pescatori, disposti tra il peschereccio appena
ormeggiato e la sommità del muraglione, facevano correre con sapienti lanci le
cofane di metallo colme di sardine: velocemente, come fosse un nastro
trasportatore. Il doganiere in basso contava le cofane e ad operazione finita
ne comunicava il numero al collega posto in alto. Questi emetteva una bolletta
fiscale che riscuoteva seduta stante dal capitano del peschereccio. Intorno a
noi ne contai almeno una decina di barche intente a sbarcare pesce ed a pagare.
Al Clipper venne rilasciato un sontuoso papiro
quale passaporto per navigare.
La sera una bella cena di pesce e un po’ di
vita. Il giorno dopo visita alla stupenda città. Massimo ed io restammo
affascinati dai bow-windows e dagli azulejos
, gioielli di architettura e dell’artigianato. Prendemmo foto e ne facemmo
spunto per il nostro lavoro. Con Massimo riuscimmo finalmente a parlare molto della nostra collaborazione
futura: quanti progetti!
Avevamo già percorse seicento miglia e recuperato il ritardo; ma la navigazione era
ancora lunga, gli appuntamenti per i cambi già fissati. “Dopo cena si parte: ci
aspettano quasi duecento miglia di Oceano con venti robusti e senza porti
agibili sino a Lisbona.” -annunciai all’equipaggio, tra le vibranti proteste di
tutti. La stessa scena continuò a ripetersi ad ogni sosta e mi tacciarono della
fama di barbaro, che non sapeva apprezzare i capolavori che ci perdevamo,
maniaco della barca e della navigazione, e quant’altro. Anche Francalisa faceva
fatica a difendermi perché …condivideva.
La tappa Oporto – Lisbona durò tre giorni
La
navigazione ebbe fasi alterne di forti sventolate e calme piatte; usammo molto
lo spinnaker grazie ai venti portanti; poco il motore, che abbandonato dalla
batteria scarica, venne relegato tra le cose inutili. “ Ma per gli attracchi
come faremo?”- chiesero costernati i tre uomini, in vista di Lisbona. “ Perdio,
ormai avete imparato a manovrare le vele.”
- risposi secco. “ Vedrete com’è divertente ed
eccitante accostare al molo con le vele! – aggiunse Francalisa.
Entrammo nell’immenso estuario del fiume di
mattina: mare calmo ridossato e vento fresco, con refoli di raffichette. Una
veleggiata stupenda, per tutti.
Attraccammo a vela al mitico, affascinate,
antico imbarcadero reale del Behlem :
come gli antichi velieri. Una breve sosta e subito al porto assegnato agli
yacht in transito, aiutati da una pilotina ed accolti con ogni riguardo, muniti
del nostro bel passaporto portoghese.
Era il 24 Luglio: ci fermammo tutto il giorno seguente.
Trovammo Nillo, fratello di Massimo, ad attenderci
puntuale. Marcello e Carlo ci lasciarono, per rientrare a Roma. Visitammo tutti
insieme Lisbona, molto ‘città’, ma grandiosa nei suoi grandi viali alberati. La
gente, anche qui come ad Oporto, un po’ triste, malinconica; l’accento e molte
parole richiamano vagamente il dialetto genovese. I saluti con i partenti si
svolsero in una atmosfera di rara e calorosa cordialità: la vita comune in
barca e la condivisione di tante avventure ci aveva proprio affratellati.
Il 26 Luglio riprendiamo rotta Sud. Il piano
di navigazione era sommario sino a Cadice, dove era fissato il prossimo cambio
di equipaggio per il giorno 30. Si sarebbero imbarcati i ragazzi, Francalisa
sarebbe rientrata insieme a Massimo e suo fratello. Potevamo prendercela un po’
comoda: partimmo in tarda mattinata.
Io comunque ero inquieto: non volevo tardare all’appuntamento con i ragazzi e temevo il difficile passaggio del capo a Sud di Lisbona, insidioso per il traffico di navi che lo doppiano serrati a terra ed il cambio del regime dei venti.
Purtroppo avevo visto bene. Tra il capo e l’isola che lo fronteggia non ci fu pace per nessuno di noi. Lo passammo di notte, incastrati in un traffico di navi che ci incrociavano da ogni lato, sempre in tensione a captare dalle sole luci di via la direzione e la velocità di ciascuna e verificare continuamente se fossimo in rotta di collisione. Doppiato finalmente il capo furono i venti ad impegnarci a fondo, prima rafficosi e portanti, poi contrari ,da affrontare con lunghi bordi di bolina. Anche forti correnti ci facevano scarrocciare ed arretrare dalla rotta.
Ma ecco che, verso sera, ci troviamo
impantanati di nuovo in una zona di calma piatta: Nillo propone di avviare il motore con la
manovella. Alle mie obiezioni sulle difficoltà e gli insuccessi già patiti in
altri tentativi, risponde con sicurezza che è praticissimo, per avere posseduto
a lungo una auto che si avviava solo a manovella. “Dov’è? Dammela per favore.
Facciamo un tentativo.”- mi supplica.
Massimo ed io vorremmo aiutarlo. Ma ci scansa:
“E’ una manovra da fare da soli, levatevi di torno.” Prima bestemmia per quanto
è dura, poi riesce a fare un paio di giri ed infine arriva il primo scoppio. “
Visto? Ormai è fatta. Diamo un po’ più di gas.” – mi dice. Agguanta con
entrambe le mani la manovella, le fa fare due giri e la accompagna sullo
slancio con la sola mano destra: il motore parte, ma Nillo si accascia
dolorante tenendosi stretto il polso destro, fratturato.
Massimo e Francalisa si danno subito da fare
con bende, stecche e tutto il necessario per bloccare il polso di Nillo. “Ma
sembra solo una leggera lesione: l’osso sembra a posto.” – rassicura subito
Francalisa.. Sistemato in cuccetta Nillo, con l’aiuto di un analgesico e il
conforto di Massimo, chiamo fuori Francalisa: la brezza stava arrivando, anche
perchè ci stavamo avvicinando ad un altro capo, che forma la baia di Sines. Il
portolano lo raccomanda come ridosso per tempo duro: decido di tentare un
ancoraggio, per potere sbarcare Nillo e portarlo in un ospedale. I due fratelli
approvano, con molte riserve sui rischi di uno sbarco difficile, e con poche
chance di trovare una valida assistenza sanitaria in un posto così sperduto.
Il vento sale rapidamente: riduciamo randa e
fiocco. Francalisa fa quasi tutto da sola: è bravissima. Doppiamo il capo con
Nordovest forza cinque, velocissimi.
La notte è stellata ma senza luna: il buio è
profondo. Contornando la punta, verso Est e poi verso Nord, il vento comincia a
soffiare da prua, con violente raffiche. Avanziamo con strette e frequenti
virate, allascando ogni tanto la randa per rallentare la barca: mi serve per
abituare la mia vista a quel tremendo buio. Ecco, in fondo alla baia, le luci
della cittadina; poi dei pescherecci alla fonda ed una serie di boe
galleggianti. Lasciamo sfileggiare le vele ed avanziamo lentamente.
C’è un peschereccio accanto a due boe: sta
armeggiando, ci lancia segnali. “ Che dice. Riesci a capire?” – chiedo urlando
per il frastuono del vento e delle vele.
“ Mi sembra faccia segno di accostare.” –
risponde Francalisa. Le ordino di preparare una cima ed il mezzo marinaio:
“Stai pronta a gettargli la cima: io cercherò di avvicinarmi più lentamente che
posso, di prua.” La manovra riesce.
Il pescatore agguanta la cima, la lega alla
boa e rimane esterrefatto a guardarci.
Prima squadra Francalisa dalla testa ai piedi, poi misura con lo sguardo il nostro minuscolo scafo. Col suo tono un po’ genovese ci domanda: “Ma da dove venite, con questa barchetta?”- “ Dal porto di Brest, in Francia.” – replica Francalisa. Scusi, c’è un ospedale qui a Sines:” Ma lui sembra non darsene per inteso: “Da Brest, con questa barca?” Con un balzo sale a bordo e viene accanto a me nel pozzetto. “Ma tu sei un novello Vasco de Gama!”- e mi serra con forza la mano!
Alle
famose Colonne d’Ercole.
Restammo alla fonda nella baia di Sines tutto
il giorno dopo, il 27 Luglio, per
sistemare Nillo. Venne ingessato, anche se la frattura era leggera; ma gli
venne sconsigliato di proseguire in barca. “Vi seguirò da terra, precedendovi
nei porti. Così potrò organizzarvi gli attracchi ed una degna accoglienza!”- ci
salutò, con molto fair-play e con in mano un bel gin tonic ghiacciato, seduto
nella veranda del suo albergo. Lo ritrovammo a Portimao, euforico e pimpante.
Io lo ero molto meno. Il doppiaggio di capo
San Vincente fu drammatico.
Si tratta della estrema punta Sud della
lunghissima costa oceanica del Portogallo, dove si scontrano due regimi meteo
contrastanti; i forti venti settentrionali convogliati dalla costa, tendono a
ruotare intorno al capo, aprendosi a ventaglio e con violente raffiche verso
levante, scontrandosi con i venti di impatto
provocati dalle forti escursioni termiche degli infuocati altopiani iberici.
Filavamo come siluri sotto la spinta dello spinnaker quando, giunti al
traverso del capo, una srtaorzata fece sbandare lo scafo trascinando in mare
metà del boma. Lo spi si sgonfiò per la frenata, per poi riaprirsi bruscamente
sotto la spinta di una raffica. Udimmo un botto, una cannonata, e si vide
volare tutta la semisfera dello spi verso la punta dell’albero, con le due
scotte di ritenuta a poppa svolazzanti in cielo: avevano strappato dal ponte le
loro pulegge di rinvio. La barca rimase squilibrata, sospinta dalla sola randa
e lo spinnaker si distese in acqua, con i suoi cinquanta metri quadrati di
tessuto impigliati dappertutto, sin sotto la chiglia. Ci vollero due ore per
rimettere ordine ed in assetto la navigazione.
Pompammo fuori bordo diverse centinaia di
litri d’acqua imbarcati nella straorzata. Ma mi accorsi con sgomento che ne
continuava ad entrare dallo scafo.
Pensai subito che la scassa dell’albero avesse
ceduto sotto quei colpi; ma anche che tutte quelle vibrazioni dell’intero
scafo, spesso in risonanza, iniziate già dal Guascogna, avessero sconnesso
ordinate, longheroni e forse il fasciame.
Il Clipper venne alato a secco in un cantiere
di Portimao, con mille difficoltà. Restammo due giorni per le riparazioni più
urgenti; ma mi raccomandarono di fare un nuovo controllo a Cadige, dove erano
più attrezzati.
Francalisa approfittò della sosta per visitare
le meraviglie dell’Algarve, ma restò accanto al suo uomo, bloccato in cantiere
dai lavori. Massimo invece, ospitato dal
fratello in un lussuoso albergo, veniva ogni tanto ad informarsi ed a sfottermi.
Soprattutto Nillo, con eccitate descrizioni di favolose donne che lo
intrigavano ad ogni piè sospinto: “Qui c’è da fermarsi almeno un mese! Non si
possono perdere certe occasioni.” Io intanto fremevo, pensando ai poveri
ragazzi, soli a Cadige.
Dove finalmente arrivammo il primo Agosto, con
una tranquilla navigazione.
Puntammo dritti al cantiere segnalatoci a
Portimao: mentre prendevo gli accordi per l’alaggio della barca, Massimo e
Francalisa andarono subito a cercare i ragazzi allo Yacht Club. Al cantiere
nacque il problema che senza la sua slitta il Clipper non potevano tirarlo
in secca. “Possiamo metterlo nel bacino di carenaggio dei pescherecci:
costerebbe un po’di più, ma le facciamo lo stesso prezzo.” Il bacino consisteva
in un enorme cassone lungo venticinque metri, largo dieci ed altissimo:
sei-sette metri. Era munito di una grande porta a chiusura stagna e di un
sistema di pompaggio. Era già calato sul fondale, sotto il livello d’acqua, con
la porta aperta. Vi entrai e assicurai lo scafo ai quattro lati del bacino con
le cime di ormeggio. Chiusa la porta stagna, le pompe iniziarono lo svuotamento
ed il bacino, con il Clipper al suo interno, si sollevò lentamente dal fondo
sino a galleggiare. L’indomani mattina avrebbero iniziato subito il carenaggio,
la verifica della timoneria e qualche calafataggio al fasciame. Lasciando il
cantiere mi si strinse il cuore osservando il Clipper tutto legato in quel
grande cassone: sembrava il giocattolo di un bimbo messo in castigo.
Allo Yacht Club trovai i miei: Nillo era
arrivato, dei ragazzi solo un laconico biglietto, lasciato il giorno prima: “
Stiamo bene; ci vediamo. Guido.”
Si presentarono al Club, Guido con Peter e
Murolo, verso mezzogiorno: gli occhi ancora socchiusi dal sonno. La sera prima
erano rientrati tardi dalla spiaggia, appena in tempo per incontrare le lindas muchachas da portare al
night-club. Per meglio difendersi tentarono di colpevolizzarci per il ritardo:
“Con i pochi soldi rimasti siamo stati costretti ad alloggiare in una locandina
dove ci fanno credito.”
Passammo tutti e sette una serata
allegrissima. I ragazzi portarono una stupenda ventata di gioventù, Nillo disse
che una vacanza così mondana ed intrigante la sognava da un pezzo, Massimo mi
assicurò che avrebbe scortato sino a Roma Francalisa, proteggendola dalle
insidie dei focosi cavalieri spagnoli. Ci fu anche uno scambio di regalini
ricordo della crociera ed un applauso generale allo appassionato bacio di
saluto tra il capitano e la sua donna.
Il tre Agosto mattina filavamo a vela diretti
a Tangeri. Il nuovo equipaggio era affidabilissimo: Guido conosceva la barca
alla perfezione, il suo amico Murolo possedeva una barca a vela e Peter era
stato il mio nostromo a San Vito nelle scorribande col mitico Star. Riuscimmo
anche a conciliare con facilità i diversi orari del sonno: io mi presi le
guardie del mattino presto, loro quelle del primo pomeriggio e della sera
tardi. In serata eravamo a Tangeri: restammo tre giorni.
I ragazzi logicamente fecero gruppo separato
da me: non ancora ventenni, diedero libero sfogo alla loro fantasia e voglia di
conoscere e vivere ogni aspetto
di questo crocevia di Oriente ed Occidente. Io
restai senza compagni adulti: feci il classico turista, cercando al più di
riscontrare questo mondo con quello vissuto in Pakistan. Vigilavo molto la
barca e con cautela anche i ragazzi; li incontravo in tarda mattinata, al loro
risveglio e cercavo di captare qualche spunto rischioso dai loro racconti.
Temevo molto la droga: mi assicuravano sempre con forza che non rientrava nei
loro interessi. Guido mi confessò, dopo qualche anno, che Peter aveva invece
fatto qualche acquisto a carattere…speculativo: aveva nascosto in barca un po’
di hashish, che poi si portò in Svizzera!. Si vestirono tutti all’araba, con
dei splendidi lunghi kaffetani, da sfoggiare poi in Italia come cimelio.
Chiudemmo la vacanza tutti insieme con
un bel pranzo a base di cus-cus, in un tipico ristorante panoramico.
Le
bizze del Mediterraneo.
Il sei Agosto riprendemmo la navigazione:
dovevamo percorrere più di trecento miglia per raggiungere le Baleari entro il
14 Agosto: a St Antonio di Ibiza ci aspettava Franco Chiozzi. “Dobbiamo forzare
le tappe e viaggiare anche qualche notte. – dissi ai ragazzi. –Sulla costa, tra
Capo de Gata e Villajoiosa, spirano forti venti contrari: sarei tentato di
puntare direttamente su Almeria con un tappone da 200 miglia.” La proposta
venne subito bocciata: “ Cosa. Papà? Ti vuoi perdere la Costa del Sol con le
favolose Marbella e Torremolinos?” – protestò Guido. Fu raggiunto il
compromesso di far tappa a Malaga, con escursioni da terra sulla Costa del Sol.
Ottenni in compenso di partire all’alba da Tangeri.” Nessun problema. – dissero
in coro. – Ci imbarcheremo direttamente uscendo dal night: ci faremo anche
accompagnare dalle ragazze, che così potrai vedere; e mentre tu ti
cuccherai il primo turno, noi tre avremo
tempo per recuperare.”
Alle sei del mattino si presentarono con un
folto gruppo di ragazze africane ai cancelli del molo degli Yacht: i doganieri
non volevano farli entrare. Seguirono trattative… sull’entità del bakshish : poi visite guidate alla barca
ed il bicchierino di saluto. Le variopinte, frizzanti ragazze, ci lanciarono
l’ultimo saluto dal molo.
Appena superata la fortezza di Ceuta, ecco il
primo regalo: un forte vento di levante. Un bel forza 4–5
contrario, da prendere di bolina. con lunghi bordi tra l’Africa e
l’Europa. I ragazzi dormirono poco: fu una bella esercitazione, con virate,
cambio di fiocchi e prese di terzaroli. Verso mezzogiorno, quasi alla fine del
bordo Europeo, a sei miglia dalla costa, ecco una micidiale ed improvvisa calma
piatta. Di accendere il motore, manco a parlarne; la batteria ormai era
esaurita e l’avvio con la manovella era stato da me rigorosamente vietato.
Dalla lontana spiaggia ci arrivava l’eco dei bagnanti e delle trombe dei
motoscafi; i ragazzi cominciarono a contendersi il binocolo: “ Guarda li che
pezzo di…!- Non vedi che schianto quel bichini!”. Tra tuffi nel mare bare blu
intenso, una spaghettata ed una pennichella, si fecero le cinque del
pomeriggio: di vento neanche il minimo refolo. Qualche motoscafo volteggiava
lontano dalla spiaggia, ma senza giungere a tiro di voce; provammo con la
nostra sirena ad aria compressa, con le bandierine di segnalazione e persino
con uno speciale specchio di richiamo di cui ero dotato. Forse fu questo ad
attirare l’attenzione di un motoscafo: lo scorgemmo puntare improvvisamente
nella nostra direzione ed a furia di urla e grandi sbracciate, i ragazzi
riuscirono a farlo accostare sotto bordo. Prima di avanzare la nostra richiesta
di farci rimorchiare al porto più vicino, usammo tutta la nostra diplomazia ed
ospitalità. Era una giovane coppia: lui, proprietario del motoscafo, era
impegnato nella classica azione di aggancio della pulzella. Salirono a bordo,
visitarono ogni angolo della barca e brindarono con noi. Quando la ragazza
accennò a rientrare, fu Guido, come convenuto, ad avanzare con garbo e
semplicità la richiesta: “Siamo in panne col motore: ci daresti una mano
rimorchiandoci sino a riva.? Magari restiamo ancorati per la notte e domattina
…tutti insieme a fare una bella veleggiata col Clipper.” Lui restò un attimo
perplesso, lanciò una interrogativa occhiata alla sua compagna, che sorrise
ammiccando. Non voleva fare brutta figura, ma esitava molto: il suo motore
fuoribordo era davvero piccolo. “ Proviamo, ma temo per la mia elica.”
-Sussurrò timidamente. Era anche nervosetto.
Sistemata la cima di rimorchio, nostra naturalmente, cominciò ad armeggiare col
suo motore: non partiva. Dopo vari tentativi e regolaggi, improvvisamente
partì, con uno scatto. Ma si imballò subito, al massimo dei giri: si era rotta
la coppiglia di fissaggio dell’elica. Seguimmo in silenzio le sue mosse: tirò
su il motore, cambiò la coppiglia, lo rimise in moto e lanciò in acqua la cima
di rimorchio. “ Mi spiace molto, ma non posso scassare il mio motore. Sarà per
un'altra volta.”- e salutandoci con la mano filò via a tutto gas. I ragazzi
allora si ammutinarono: “ Vogliamo la manovella!”
Mi resi conto che ci stava prendendo la
famosa agoràfobia ; anch’io cominciavo a sentirmela salire nel cervello: e
cedetti. Dopo dieci minuti il motore era acceso!
A mezzogiorno del sei Agosto ci ormeggiavamo
alla banchina di Malaga, in un caldo soffocante. Per prima cosa mi decisi a
comprare una batteria nuova ed a fare revisionare il motore. Poi, tutti insieme
a Torremolinos.
Mentre i ragazzi si dedicavano al night ed
allo shopping, io mi concentrai con vivo interesse, alla visita di quel primo
modello di polo turistico. Trovai geniale e molto funzionale la distribuzione
delle varie attività a piani diversi: al piano strada gli ambienti commerciali
e ricreativi, al primo gli studiò
professionali, in quelli alti, varie tipologie di appartamenti. Le torri mi
ricordavano Le Corbusier.
Dopo una sosta notturna nella squallida Adria,
fummo costretti da venti e correnti contrari, ad ancorarci nella baia di St
Pedro. Il motore funzionava bene, ma la sua modesta potenza aiutava poco a
contrastare il mare contrario. Il dieci agosto una tappa meno faticosa, sino
alla stupenda insenatura di Portman: incrociammo un grande banco di sgombri con
i quali furono riempiti due secchi di pescato.
Durissima fu la tappa successiva: i bordi di
bolina per doppiare capo Palos non finivano mai; per un momento trovammo sotto
costa, al largo di Cartagena una strana zona di mare senza frangenti contrari.
Era l’imbrunire e la visibilità scarsa; l’atmosfera un po’ irreale: anche il
fruscio del mare contro la prua aveva un suono sordo, inconsueto. D’un tratto
ci trovammo avvolti da un penetrante odore di nafta: stavamo attraversando una
enorme chiazza di gasolio, così spessa ed estesa, che aveva spianato il mare.
Poi riprese la lotta contro mare e vento: alle dieci del mattino dell’undici
entravamo sfiniti a Villajoiosa. Ormeggiammo acanto ad uno Yacht inglese; il
suo capitano ci accolse con calore e simpatia. Ci guardava tuttavia con un’aria
di malcelata commiserazione: e non potè fare a meno di inserirsi nella
discussione tra me ed i ragazzi. Io volevo fare una breve sosta di poche ore,
di riposo e acquisto di viveri freschi; loro volevano farsi la serata a terra.
Intervenne appunto il vicino, ed in perfetto stile inglese mi impartì una
lezione di vita e di saggio comportamento in mare. “Quando si naviga gli
appuntamenti non contano: Il mare è il nostro padrone: esige rispetto.
Statevene qui tranquilli a godervi la vita: in un paio di giorni il regime dei
venti dovrebbe cambiare. Arriverete dal vostro amico ad Ibiza allegri, pimpanti
e ben riposati.”
Il tappone di 80 miglia da Villajoiosa a St
Antonio di Ibiza ci prese quasi due giorni: fummo in vista della scogliera
frangiflutti del porto quando albeggiava.
“ Papa, papà. – gridò Guido, di vedetta a prua. Quell’omino tra i massi della scogliera mi sembra Franco Chiozzi!” Era proprio lui, povero amico mio: si stava svegliando dopo una notte passata tra i massi. “Ieri sera ho girato tutta la città alla ricerca di un letto; negli alberghi, anche le vasche da bagno erano state affittate per dormire. Persino una prostituta ha dovuto rifiutare la mia richiesta di passarci insieme la notte nel suo letto: per ferragosto anche loro erano state tutte prenotate. Ma non disse altro: sistematosi in cuccetta dormì sino al mattino dopo.
Tra
le burrasche fino a San Vito.
L’arrivo di Franco ebbe su di me un effetto
straordinario. Intanto, il fatto di poter dividere con un coetaneo amico di
vecchia data, emozioni, pensieri e riflessioni con cui confrontarsi, mi
toglieva da quell’isolamento in cui i tre ragazzi mi avevano un po’ confinato;
ma soprattutto la condivisione della conduzione della navigazione con un uomo
di mare di grande esperienza, avevano subito allentato quella tensione costante
che non mi aveva mai abbandonato dall’inizio della crociera, ormai da oltre un
mese. Mi sentii rilassato e, nel mio inconscio, chiusi le valvole di sfogo
della mia adrenalina.
Quella stessa mattina puntammo su Soller, un
porticciolo ben protetto sulla costa Nord dell’isola di Maiorca, la maggiore
delle Baleari. Navigammo a varie andature, sospinti dalle brezze termiche,
quasi sempre a vela. Il motore partiva regolarmente, le manovre delle vele
sempre eseguite con abilità da quel magnifico equipaggio. Solo nel pomeriggio
del 16 Agosto si alzò un venticello di gradiente da Est ed il mare passò a
forza tre, con onda lunga. Franco aveva recuperato e si divertiva molto a
navigare a vela, studiando il rendimento, affinando i regolaggi ed ogni minimo
dettaglio; ogni ora faceva il punto nave ed una serie di rilevamenti. Io ero
raggiante nel vederlo così felice; e rilassato.
Al tramonto il cielo si coprì repentinamente
di neri minacciosi nuvoloni, il vento girò a NW rinforzando. Franco fece
spiegare randa e genoa a farfalla: con quella andatura di poppa filavamo a
sette nodi, planando. “Non ti sembra che siamo troppo invelati?”- dissi
timidamente a Franco. L’adrenalina aveva di nuovo iniziato ad uscirmi; temevo che le strutture veliche e
dello scafo venissero troppo sollecitate. Franco in fondo non conosceva ancora
bene la barca. Colsi anche lo sguardo di Guido, pronto accanto alle scotte
della randa, rivolto a me quasi per sollecitarmi istruzioni. Sotto una raffica
più violenta Franco non riuscì a tenere bene in rotta la prua ed il boma ci
passò velocissimo sopra le teste schiantandosi sulle sartie delle altre mura:
avevamo strambato! “Guido! Ammaina subito la randa.”- ordinai. Ho ancora
impresse nella mia mente le lunghe braccia e le grandi mani di Guido,
agguantare la immensa vela precipitata sul ponte ed anche in parte sul mare. In
un attimo gli fu sopra con tutto il corpo ed aiutato da Peter la calò sotto
coperta nel gavone di prua. Ordinai anche di accendere il motore, per
recuperare manovrabilità. Franco seguiva al timone, agevolandoci nelle manovre.
Ma non abbastanza per evitare che il grande
genoa si impigliasse nello strallo, poi nelle sartie e finisse squarciato sul
ponte. I ragazzi furono svelti a recuperarlo rimpiazzandolo col fiocco n° 2, il
più piccolo in dotazione. Rientrarono nel pozzetto bagnati fradici dai
frangenti del mare contro la prua.
Il vento mollò un pochino, dandoci tempo di
riordinare le idee e la grande confusione. Indossammo tutti le cerate; feci
portare nel pozzetto le cinture di sicurezza. Seguì un vivace dibattito tra me
e Franco: lui, velista puro, voleva alare di nuovo la randa terzarolata e
spegnere il motore. “Preferisco questo assetto.- gli dissi, un po’vivacemente.
La burrasca ci ha fatto scarrocciare a sud dell’isola di Majorca; meglio
passare ridossati sottovento. Solo che il vento uscirà dalle vallate dell’isola
con violenti raffiche. Il motore inoltre ci serve a sgottare la barca perché è
collegato con la pompa di sentina. Credo anche che il vento girerà a Nord e lo
prenderemo al traverso.” Franco tacque ed obbedì.
Col solo fiocco ed un filo di motore percorremmo tutta la costa Sud di Maiorca in
un paio d’ore; ma giunti alla estremità Est, nel canale tra Maiorca e Minorca
si formò un groppo spaventoso. Le raffiche, ormai forza otto-nove, fecero il
giro completo della rosa dei venti, il mare cominciò a ribollire di frangenti
da ogni direzione e si scatenò una tempesta magnetica impressionante. Eravamo
tutti avvolti dai grandi cumulonembi discesi sino alla superficie del mare: non
si vedeva più nulla. Avevamo intravisto per un attimo un faro, che Franco aveva
rilevato, per fortuna. Scese sotto coperta, consultò le carte e mi annunciò che
era posto all’entrata dello stretto canale di Ciuladela, dove c’era un piccolo
porto di pescatori, ma molto angusto e con fondali limitati. Decidemmo di
tentare di entrarvi a ripararci. Il groppo intanto si sfogò in un tremendo
piovasco.
Guidati dalla sola bussola, verso l’una di
notte l’agognato faro bucò la cortina di pioggia e nuvole e ci si presentò,
quando eravamo a non più di trecento metri.
Appena entrati nel canale, in pochi minuti
quell’inferno si placò. Franco volle entrare a vela, sino al moletto in fondo
al canale. Non c’era anima viva. Ormeggiata la barca con estrema cura,
crollammo tutti in un profondo sonno.
Il giorno dopo, nel tardo pomeriggio il nostro
genoa era stato già riparato da un pescatore; i ragazzi avevano fatto alcune
conquiste e Franco ed io completamente recuperato. Alle 18.00 riprendevamo a navigare.
Passammo l’isola di Minorca da Sud, per
ridossarci dal mare formato dal maestrale. Ci accorgemmo di quanto fosse grosso
non appena scapolata la punta Est dell’isola. La nostra rotta era Est-Nordest;
quindi lo prendevamo al traverso. Ogni ondata si frangeva sulla murata e poi
scavalcava la tuga, inondandoci. Stabilimmo dei turni di guardia brevi: non si
reggeva per più di quattro ore.
Passammo così
oltre quaranta ore, percorrendo 160 miglia. In vista dello imponente
Capo Caccia, avvistato ad una trentina di miglia, tutto lentamente si calmò. A
mezzogiorno del 21 Agosto entravamo a vela nel porto di Alghero.
Quando scesi sul molo con passo incerto, dopo
due giorni di scuotimenti, baciai terra, il suolo della mia Italia.
Franco era conosciuto in Capitaneria ed al
locale circolo della Marina. Ci fece sentire tutti a casa. Il bollettino del
mare però non era favorevole. Meglio attendere che una nuova perturbazione, prevista
per la notte, fosse passata. La famosa rottura dei tempi era già avvenuta. Per
un lungo percorso bisognava cogliere il momento favorevole tra una
perturbazione e l’altra. Decidemmo di riposarci tutto il giorno dopo, per poi,
partendo di buon ora, fare una tappa di avvicinamento sino alla Maddalena.
Avremmo avuto vita dura solo doppiando l’Asinara, nel canale con la Corsica; a
meno di tentare il passaggio dei Fornells.
Ci presentammo all’imboccatura di questo
strettissimo canale verso le tre del pomeriggio del 22: navigavamo di bolina
stretta contro un robusto maestrale da otto ore. Eravamo stanchi e inzuppati di
spruzzi. Ripassammo con Franco le indicazioni del Portolano: “Con maestrale
forte il mare frange sul bassofondo di tre metri con ondate che possono
scoprire il roccioso fondale del canale.” Era proprio il nostro caso:
rinunciammo, proseguendo verso Nord. La rimonta verso la punta dell’Asinara e
la sua circumnavigazione ci impegnò per
otto ore: Quando finalmente doppiammo il capo, crollai: “Non ce la faccio più.-
Dissi a Franco. Questa crociera non finisce mai. Sembra proprio che tutti gli
elementi ci siano contro! Prendi tu il comando…veditela tu!”. E mi infilai in
cuccetta.
Mi svegliarono quando, già ormeggiati in
porto, erano tutti pronti per la libera uscita. “La perturbazione sta ancora
passando: partiremo solo domattina. Non vieni a rilassarti a terra?”. Ero così
abbruttito, che rinunciai: per la prima volta!
Il 23 mattino mi svegliai tardi: alle otto. I
ragazzi dormivano profondamente; Franco era in Capitaneria per le ultime
informazioni meteo. C’era calma piatta.
Anche io ero calmo, distaccato, svuotato: mi
limitai a fare un po’ d’ordine nel caos della dinette e mi misi a leggere. “
Ciao pà.- mi disse Guido svegliandosi. Tra poco siamo pronti; tu mettiti
tranquillo a fare il Capitano: facciamo tutto noi.”. Che caro! Aveva capito che
il suo papà era…arrivato.
La navigazione si svolse tranquilla, con venti
leggeri alternati a momenti di stanca, per i primi due giorni, sino alle tre
del pomeriggio del 25 Agosto. Loro quattro facevano le guardie, io il Jolly.
Franco si ostinava ad andare solo a vela. Avevamo quindi percorso soltanto le
prime novanta, delle 170 miglia della tappa.
Cominciò allora una delle più lunghe e
fastidiose libecciate che abbia mai incontrato. I groppi nuvolosi, sospinti da
un vento di trenta nodi, si alternavano ad intervalli di tre-quattro ore;
duravano un’ora, chiudendo con un breve piovasco. Le onde erano vigorose e
frangevano sotto le raffiche. Dalla cuccetta, ad ogni groppo, sentivo lo scafo
vibrare come nel Guascogna ed i sinistri scricchiolii dell’albero contro la scassa. Tra le sartie
il vento sibilava con una incredibile varietà di toni: a volte mi sembrava di
udire il suono di tante piccole campane. Ogni tanto uscivo nel pozzetto a
prendere aria, ma non riuscivo a partecipare. Franco e Guido si divertivano
allegramente: “Ecco, ecco un nuovo groppo!. Dai, prepariamoci a fare planare lo
scafo; hai visto quella bella onda?”
Ed io me ne tornavo sotto coperta: “ Speriamo
che la barca regga sino a casa!” – dicevo tra me e me. Nella notte tra il 26 ed
il 27 avvistammo il faro del Circeo.
Sospinti dalla libecciata lo raggiungemmo e
doppiammo rapidamente: “Tra poco è fatta.- pensai. Saremo a San Vito di notte.”
Ed invece…
Quando cominciò ad albeggiare ci trovammo
impantanati nella calma piatta del ridosso del Circeo, nell’ampio golfo tra
Terracina ed il lago di Fondi. Franco non ne volle sapere di accendere il
motore: “ A casa, alla fine della crociera, è di rigore un arrivo a vela, con
una bella manovra di ancoraggio nella tua baia!”
Alle 14.00 del
27 Agosto gettavamo l’ancora davanti alla spiaggia di San Vito!
Arrivandoci dal mare provai la stessa emozione
della prima volta, con il piccolo Fliing Junior. “ Corri ad abbracciare i tuoi;
alla barca pensiamo noi!” – mi disse Franco, aprendosi ad un largo raggiante
sorriso. Alessandro intanto si era fatto sottobordo con la barchetta di legno,
seguito a nuoto da uno stuolo di fratelli, sorelle ed amici. Il Clipper fu
invaso da una festante tribù di ragazzi: tutti intorno a Guido, fierissimo di
poter raccontare, esibire cimeli e tutte le ferite del Clipper.
Dalla veranda di casa si sbracciavano papà
mio, la mamma e Francalisa.
Mentre vogavo verso la riva avvertii tutto il
contrasto tra il mio stato d’animo di novello Ulisse rientrato in patria dopo
tante vicissitudini e lo spirito di accoglienza di tutta quella truppa, rivolto
quasi esclusivamente alla barca ed all’equipaggio. Per questo mi colpirono le
parole con le quali mi accolse papà.
“ Ben tornato, figlio mio: finalmente! –
disse, abbracciandomi stretto. – Ma come sai di mare: sembri uscito dalle sue
acque!”
Quanto era strano, inconsueto, stupendo, il
potersi bere un martini ghiacciato seduto tranquillo in una poltrona. Com’erano
lisce, vellutate, profumate…ed asciutte le lenzuola del mio letto. Ed ogni
notte, per quaranta giorni, tanto era durata la mia crociera, feci lo stesso
sogno, che senza rendermene conto si innestava con la realtà. La barca era in pericolo! Talvolta era
l’ancora che arava; talaltra il vento che investiva furioso la barca, il genoa
che sbatteva, lo spinnaker che si impigliava nelle sartie; o l’ormeggio che
non teneva e ci sbatteva sul molo. Il sogno si interrompeva ed io mi
ritrovavo affacciato alla finestra, proteso verso il giardino, per controllare
…il mare.
( Redatto a Gaeta il 31 . 01 . 04)
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